È un’eccellenza mondiale, che dà un importante contributo all’economia nazionale, che garantisce occupazione, che investe nella ricerca e che contribuisce a diffondere all’estero la notorietà del “made in italy”. Eppure la sua attività è sotto traccia, poco conosciuta e il nome stesso -“conto terzi”- risulta troppo riduttivo, non adeguato al reale impegno e al suo ruolo produttivo. Tant’è vero che lo si vorrebbe cambiare.
«Perché la chiamiamo “conto terzi”» si è chiesto Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria, «e non piuttosto “conto primi”, visto che siamo i primi in Europa?». In piena sintonia con Giorgio Bruno, presidente del Gruppo Produttori Conto Terzi di Farmindustria, che propone di trovare un nome nuovo al comparto, un marchio che dia giusto valore alla sua attività e prestigio. «Siamo sempre più competitivi, siamo avanti anche al 4.0» ha precisato, e non va bene neppure quell’acronimo inglese, Cdmo (“Contract development and manufactoring organization”), anch’esso troppo stretto rispetto ai suoi poliedrici ruoli.
Che sia una produzione quasi figlia di un Dio minore lo dimostra anche il fatto che la stessa stampa professionale dedica poco spazio alla manifattura che lavora conto terzi. Cerchiamo allora di porvi rimedio, partendo dai dati presentati a Milano da Farmindustria, nel corso del convegno tenutosi a fine ottobre presso Assolombarda su “Il Conto terzi in Italia – Un ecosistema produttivo che fa grande il Paese”. Precisiamo subito che questa produzione è un elemento strutturale della nostra economia, che interessa i più vari ambiti della manifattura, raggiungendo, per esempio, il primo posto a livello europeo nella produzione farmaceutica per conto terzi e il primo posto a livello mondiale nel makeup, quasi tutto conto terzi.
Le varie filiere del Made in Italy
Si tratta, quindi, di un’attitudine trasversale alle filiere del made in Italy, tant’è vero che sono 108mila le imprese della manifattura (27% del totale) che hanno prodotto almeno una volta conto terzi, raggiungendo un fatturato di 56 miliardi di euro. Il peso percentuale sul fatturato totale varia da settore a settore, ponendo al primo posto il comparto dell’abbigliamento (13,3%), seguito dall’automazione (9,6%), dalla farmaceutica (6,4%), dall’arredamento (6%), fino all’1,3% dell’alimentare. Se poi il confronto si fa nei riguardi non dell’intera produzione, ma all’interno del fatturato italiano conto terzi, allora vediamo che il settore predominante è l’automazione, seguita dall’abbigliamento, dall’arredamento, dall’alimentare e dal farmaceutico. Quote minori riguardano la gomma, la plastica, l’elettronica e così via.
Un ultimo sguardo, restando nella produzione conto terzi in generale, va dedicato alle imprese che fanno più del 50% del loro fatturato proprio nell’attività terziaria, cioè dove questa risulta prevalente. Ebbene, in questo specifico perimetro il numero delle imprese è di 69mila, con un fatturato di 47 miliardi di euro e ben 455mila addetti. Siamo, quindi, di fronte a una realtà ben consistente, che peraltro investe in macchinari, fa formazione, s’impegna in ricerca mediamente più delle altre imprese manufatturiere. E soprattutto esporta: il 12% del fatturato nell’alimentare, il 14% nell’abbigliamento, il 15% nell’arredamento, il 17,5% nella meccanica, fino ad arrivare al 67,6% nella farmaceutica. Sono dati che dimostrano quanto questo settore produca ricchezza, faccia bene alla bilancia commerciale e, soprattutto, abbia una marcia in più, visto che si propone nella messa a punto del prodotto più come partner del committente e meno come mero esecutore.
Interessante poi sottolineare il ruolo, nell’ambito della manifattura conto terzi, della produzione farmaceutica, che, se non ha un peso globale preponderante rispetto alle altre filiere, occupa non di meno posizioni di tutto prestigio. Primeggia, per esempio, non soltanto nell’export, come abbiamo visto, ma anche nella composizione del fatturato per classi di addetti, dove risultano in maggioranza le imprese con oltre 250 addetti, rispetto al generale predominare di piccole e medie entità. Così come l’industria farmaceutica risulta prima sia negli investimenti in macchinari e impianti (cui va il 4,3% del fatturato, contro il 3,7% dell’arredamento e l’1,3% nell’automazione), sia nella formazione del personale (413 euro per addetto, contro i 279 nella meccanica e i 78 nell’alimentare). Quindi, il settore “Farma” ricopre, nell’ambito della produzione conto terzi, una posizione autorevole.
Il terzismo farmaceutico
In particolare, l’indagine Prometeia-Farmindustria 2019 ci dimostra che anche ultimamente è aumentata la propensione della produzione conto terzi farmaceutica agli investimenti (1,8 volte in più rispetto alla media manufatturiera) e che il principale driver di crescita è l’immissione di prodotti nuovi o destinati a nuovi mercati, che ha alimentato il 65% dell’incremento (mentre il rimanente 35% è andato all’aumento della domanda di prodotti/mercati già in portafoglio). Questo testimonia la propensione della filiera alla ricerca, all’innovazione e all’export, che ha fatto registrare un aumento del 30% delle esportazioni nel solo biennio 2017-18 (soprattutto verso gli Stati Uniti e l’Europa). In particolare, il primato in Europa della produzione conto terzi risulta rafforzato negli ultimi anni, essendo il suo fatturato passato dal 21,7% del 2010 al 25,2% del 2017. È aumentata anche la quota della Germania (dal 20 al 22%) e della Gran Bretagna (dall’8,1 al 9,9%), mentre ha perso peso la Francia (dal 20,3 al 19,2%). Così il fatturato delle imprese italiane risulta incrementato, nello stesso periodo, di 700 milioni di euro (+51% rispetto al 2010), oltre 100 milioni in più, per esempio, rispetto al dato della Germania. Vale poi la pena di annotare che, sempre tra il 2010 e il 2017, in Italia la crescita cumulata del fatturato del conto terzi farmaceutico ha oltrepassato il 50%, contro un 6% del valore accumulato dal manufatturiero in generale.
Si capisce allora perché il concetto “conto terzi” stia stretto -come ha dichiarato Sergio Dompé al convegno di fine ottobre a Milano- a un’industria che rappresenta un’eccellenza, che è “motore di ricerca e importante bandiera del nostro Paese”. Lo ha ribadito Domenico Sturabotti, direttore della Fondazione Symbola che ha presentato lo studio “Italy, Land of quality”, come pure i rappresentanti delle varie filiere del conto terzi partecipanti alla tavola rotonda. Tante realtà diverse ma, come ha sintetizzato Massimo Scaccabarozzi, «diciamo tutti le stesse cose e questo dimostra che c’è grande affinità tra di noi».
Vero handicap sta soprattutto nell’incapacità di comunicare le eccellenze che fanno del “Made in Italy” un valore ampiamente riconosciuto all’estero, ma non altrettanto valorizzato a casa nostra, per quella propensione tutta italiana all’autocritica, che s’accompagna a un’eccessiva esterofilia. «Dobbiamo essere consapevoli dei nostri pregi» ha detto il presidente di Farmindustria «dobbiamo volerci più bene, essere orgogliosi dei nostri primati e saperli difendere». Insomma, come ha precisato il presidente della Fondazione Symbola, Ermete Realacci, evitare di essere «criptodepressi, capaci di vedere soprattutto le nostre debolezze e non i nostri punti di forza».
I dieci punti di forza
Ecco allora l’occasione per ricordare i dieci punti di forza del terzismo italiano, così come emersi dall’indagine qualitativa di Fondazione Symbola e Farmindustria, frutto delle interviste tra produttori e committenti di cinque filiere del made in Italy (abbigliamento, agroalimentare, arredo, automotive, farmaceutica).
1. Eccellenza produttiva, flessibilità e affidabilità. Le aziende straniere vengono in Italia a produrre i loro prodotti, perché l’Italia evoca e garantisce capacità produttiva eccellente, professionalità, qualità, e anche flessibilità e creatività. Per economie di scala e commodities, l’Italia non può competere con altri Paesi, ma se si parla di qualità, competenze, affidabilità, innovazione, servizi e assistenza al committente, allora siamo molto competitivi.
2. Il fattore umano. In tutto il made in Italy il fattore umano è un elemento decisivo. Da esso dipendono la qualità produttiva, la capacità di innovare, di affrontare la complessità e risolvere i problemi.
3. L’importanza del territorio. Il made in Italy si avvale di un fitto tessuto produttivo nazionale e una rete di relazioni che garantiscono flessibilità produttiva. Qui le imprese possono trovare competenze (imprenditori, università e associazioni) che le rendono più competitive.
4. Tecnologia e impianti. La qualità delle produzioni, la flessibilità garantita, l’efficienza dei processi, la sostenibilità ambientale sono legati anche al grado di affidabilità e di innovazione dei macchinari e degli impianti utilizzati.
5. Sostenibilità ambientale. Essa è, oltre che importante fattore di efficienza, una richiesta del consumatore e del committente. Le scelte ambientali rendono più competitiva l’offerta dei terzisti.
6. Servizi, fino al pacchetto completo. Le imprese committenti ricercano terzisti in grado di offrire un’elevata preparazione tecnica e produttiva, capaci di realizzare lavorazioni complesse e pacchetti completi. Privilegiano relazioni con un solo soggetto che assuma un ruolo di responsabile e garante della sub-fornitura.
7. Il valore delle certificazioni. Rappresentano il valore aggiunto da offrire al committente, che se ne potrà fregiare agli occhi del cliente finale, o per arrivare a nuovi mercati. Sono garanzia di qualità della produzione e indicatore di trasparenza dei processi.
8. L’innovazione risale la filiera. Il grado di innovazione di un prodotto non dipende esclusivamente dal committente. Anche il terzista, con la sua esperienza, competenza e ricerca, ottiene innovazioni poi proposte al committente e, in questo modo, al prodotto.
9. Integrazione della filiera. Essa può essere verticale (fasi produttive successive) o orizzontale (prodotti e processi affini alla filiera tecnologico-produttiva esistente). Si aumenta così know-how, efficienza produttiva ed economica.
10. Conto terzi, una specializzazione. I terzisti non hanno l’ambizione né le competenze per affiancare la produzione conto terzi con quella conto proprio. Vorrebbe dire disperdere le energie, con il rischio di indebolire i propri punti di forza.
(di Lorenzo Verlato, Farma Mese 9-2019 © riproduzione riservata)