Ci sono persone che potremmo definire di “lungo corso”, che per tanti anni sono rimaste ai vertici della categoria in posizioni apicali e che, quindi, si sono trovate a vivere i momenti più significativi e più drammatici che in questi ultimi decenni la categoria si è trovata ad affrontare.
Tra queste persone sicuramente rientra Maurizio Pace, che dalla laurea con lode nel 1983 ha salito poi i vari gradini dell’Ordine professionale, passando da segretario ad Agrigento (1990) a presidente (1993), fino a entrare, nel 2000, nel Comitato Centrale Fofi, per divenire poi, dal 2006 a oggi, segretario nazionale della Federazione degli Ordini.
Una lunga carriera, che si è arricchita nel tempo di altre responsabilità (Enpaf, assessore provinciale, Consiglio superiore di Sanità) che lo hanno reso partecipe delle vicende della categoria, rendendolo sua “memoria storica”.
Lo abbiamo intervistato con l’obiettivo di ripercorrere insieme a lui gli ultimi trent’anni di vita professionale.
■ Lei entra nei vertici ordinistici a ridosso della stagione di Tangentopoli, che sconvolse il quadro politico e toccò pesantemente anche il mondo del farmaco (Sanitopoli). Come visse quel periodo?
Nel 1993 ero appena stato eletto alla presidenza dell’Ordine di Agrigento ed è innegabile che abbia vissuto quel momento politico come un evento traumatico. Al netto delle vicende che sono state oggetto dell’intervento della magistratura, è stata, infatti, la prima volta che si veniva a incrinare la fiducia dei cittadini nei confronti del “sistema farmaco” nel suo complesso.
Come farmacista e come presidente di Ordine all’epoca provai dispiacere e, sì, anche rabbia nel vedere che, sui giornali come in televisione, affrontando l’argomento delle tangenti legate al farmaco si sceglievano quasi sempre immagini di farmacie, come se nelle irregolarità il servizio farmaceutico avesse un ruolo diretto, mentre in realtà si trattava di fatti che interessavano un sistema che operava a monte della farmacia.
Una sorta di corto circuito che avrebbe potuto avere conseguenze rilevanti, che sono state evitate soltanto grazie alla dedizione con cui tutti i colleghi hanno sempre operato al servizio dei cittadini.
Come recentemente ha ricordato l’ex ministro della Sanità di quegli anni, Maria Pia Garavaglia, il farmacista è l’amico colto del cittadino: non è mai venuto meno a questo ruolo e la collettività l’ha sempre riconosciuto.
■ In questi anni ha dovuto confrontarsi con un susseguirsi di ministri della Salute: Maria Pia Garavaglia, Raffaele Costa, Elio Guzzanti, Rosy Bindi, Umberto Veronesi, Girolamo Sirchia, Francesco Storace, Livia Turco, Maurizio Sacconi (Welfare), Ferruccio Fazio, Renato Balduzzi, Beatrice Lorenzin, Roberto Speranza. Ci proponga una classifica: chi le è piaciuto di più, chi di meno?
Sarebbe ingiusto stilare una classifica in senso stretto, anche alla luce di alcune considerazioni generali. Da Tangentopoli in poi è cominciata una fase in cui il Servizio sanitario nazionale, una conquista eccezionale per il nostro Paese, ha iniziato a essere considerato più come un centro di costo che come un servizio, con una costante tensione tra i dicasteri economici e quello della Sanità.
Nessuno dei ministri citati, insomma, ha avuto un compito facile. Ma devo sottolineare che molto spesso, purtroppo, è stata proprio l’assistenza farmaceutica a essere usata come un capitolo di spesa, dal quale era sempre possibile ottenere risparmi.
■ E detto questo…
Detto questo, non mi sottraggo alla domanda. Ho già citato l’onorevole Garavaglia, che ha affrontato la revisione del prontuario nazionale in quel momento difficile con grande equilibrio e competenza. Anche Rosy Bindi ha dovuto affrontare una crisi molto particolare, quella della “terapia Di Bella”, conducendo un’azione a sostegno della medicina basata sulle evidenze, senza cedere a condizionamenti e alla politicizzazione di una questione che spettava soltanto alla scienza risolvere.
È a un ministro tecnico, poi, il professor Girolamo Sirchia, che dobbiamo l’approvazione della Legge che vieta il fumo nei locali pubblici, un altro progresso importante nella tutela della salute pubblica.
Dal punto di vista della nostra professione, ci sono stati Ministri che hanno colto il valore del farmacista, nella farmacia di comunità, nell’ospedale e nelle strutture territoriali del Ssn. Politici e tecnici che hanno favorito quell’evoluzione del nostro ruolo che nel 2006 l’attuale presidente della Fofi, Andrea Mandelli, aveva presentato a Palazzo Marini.
L’interlocuzione sul tema era cominciata con Livia Turco, ma fu il professor Fazio a licenziare la Legge 69/2009, che stabiliva le basi della “Farmacia dei servizi”, per giungere al ministro Speranza, con il quale venne avviata la sperimentazione delle nuove prestazioni professionali del farmacista, in seguito corroborata dalla decisione di accogliere l’offerta di Fofi e Federfarma di coinvolgere i farmacisti di comunità nella campagna di screening e di immunizzazione contro il Sars-CoV-2. Un’innovazione che ha avuto una parte importante nel contrasto della pandemia messo in atto dai Governi che hanno retto il Paese in quella fase terribile.
■ Dopo anni di pace sindacale passa, nel 2001, la Legge 405, che lentamente, ma inesorabilmente farà uscire il farmaco dalla farmacia, aprendo la strada alla distribuzione diretta. Che cosa ricorda di quel periodo?
Soprattutto ricordo una sottovalutazione dell’allora dirigenza del sindacato delle farmacie. In realtà quella norma conteneva diversi elementi che avrebbero avuto conseguenze a lungo termine. Oltre alla distribuzione diretta, infatti, nella Legge si stabiliva che il medicinale di riferimento per il rimborso sarebbe stato il generico, e questo rendeva urgente riconsiderare la remunerazione della farmacia.
Quanto alla “diretta”, questa non soltanto ha sancito l’uscita del farmaco dai presidi territoriali, ma ha determinato di fatto l’esclusione dei farmacisti di comunità dal circuito dell’innovazione. Ha anche creato un contrasto strisciante con i colleghi ospedalieri, che si sono ritrovati, in molti loro malgrado, a operare come dispensatori al pubblico, venendo distolti dal loro ruolo nell’ospedale, nei reparti come nel laboratorio galenico.
Una frattura che la Federazione degli Ordini ha sempre cercato di ricomporre, riuscendoci anche attraverso passaggi come la sperimentazione, attuata con il Ministero, della figura del farmacista di dipartimento. È fondamentale, infatti, che farmacisti ospedalieri e di comunità collaborino su tutti i fronti, anche sul piano della formazione.
■ Non dimentichiamo, poi, l’uscita dalla farmacia non soltanto del farmaco Otc, ma anche del farmacista, con la Legge Bersani. Quel periodo di grandi battaglie sindacali come lo ricorda dal punto di vista degli Ordini?
Sì, fu un periodo decisivo non solamente per quanto riguarda la questione della distribuzione del farmaco da banco, ma anche per la questione della riserva della titolarità della farmacia al farmacista, che abbiamo affrontato anche alla Corte di Giustizia europea.
Quanto previsto dalle famose “lenzuolate” era un impianto liberista che, se applicato fino in fondo, avrebbe portato alla disarticolazione di un servizio essenziale per la tutela della salute, che già risentiva di una destabilizzazione sul piano economico. Per inciso, una scelta che stupiva fosse proposta da un Governo di sinistra, tanto è vero che una parte della stessa sinistra considerò fondate le tesi che la Federazione aveva elaborato e sostenuto in tutte le sedi.
Un aspetto che lo stesso Antonio Lirosi, allora il “Mister Prezzi” del ministero dello Sviluppo, riporta in un suo libro. In quella fase si evitò il peggio, ma si crearono criticità che tuttora permangono, a cominciare sicuramente dal nodo delle parafarmacie, che si sono tradotte in un vantaggio per grandi gruppi, ma hanno causato enormi difficoltà ai colleghi che hanno scelto di aprire esercizi di vicinato come singoli professionisti.
■ Alla fine il trinomio “Farmaco, Farmacista, Farmacia” perde nel 2017 l’ultimo pezzo, con l’entrata del capitale nella proprietà (che, però ha permesso di sanare molte situazioni familiari). Quale al riguardo il suo giudizio?
È evidente che il giudizio in linea generale non può che essere negativo, ma occorre essere realisti e considerare anche il fatto che questo ha dato una spinta importante alla creazione di reti di presidi di proprietà dei professionisti, un passo ulteriore rispetto alle società di servizi per le farmacie molto diffuse in Paesi come la Francia e anche l’Italia. E questo è un aspetto cruciale per il futuro della farmacia professionale, nella quale il farmaco e l’assistenza al paziente sono il fulcro dell’attività dei presidi.
Poi è vero, per alcuni colleghi l’arrivo delle società di capitali ha offerto una via d’uscita da condizioni difficili, ma non credo che siano situazioni così frequenti e, soprattutto, sono convinto che oggi si possano trovare alternative restando all’interno del mondo della professione.
■ Ricordiamo anche le cose belle. Pensiamo alla Legge del 2009 che ha aperto le porte alla “Farmacia dei servizi”.
La Legge 69, il modello della farmacia dei servizi, è senz’altro il pilastro della strategia di evoluzione professionale che l’attuale dirigenza della Federazione, sotto la guida di Andrea Mandelli, ha costantemente perseguito da Palazzo Marini in poi. Credo che oggi, dopo l’esperienza della pandemia, possiamo senz’altro concludere che l’assistenza territoriale non avrebbe dato una risposta adeguata a questa emergenza senza la farmacia dei servizi, senza la formazione che i colleghi hanno sostenuto per realizzare questo modello, senza la consapevolezza sempre maggiore di essere tra gli attori del processo di cura.
Infine, vorrei sottolineare come la farmacia dei servizi sia anche la base per stabilire una reale sinergia tra tutti i professionisti della salute che operano sul territorio (medici di famiglia, infermieri, farmacisti), che sono il perno dell’assistenza di prossimità.
■ In conclusione, quali sono gli avvenimenti che ricorda con maggior favore e quali, invece, con amarezza?
Amarezza mai, perché è il sentimento della sconfitta e i farmacisti non sono certo usciti sconfitti dalle grandi difficoltà che hanno caratterizzato quest’ultimo ventennio. Anzi, hanno dimostrato di saper rispondere alle crisi con l’innovazione, a vantaggio tanto dei cittadini quanto della professione.
Da un punto di vista più personale, ricordo con soddisfazione la mia attività in ambito previdenziale: dal 1997 al 2000 sono stato vicepresidente dell’Enpaf e dal 2001 sono il rappresentante della Federazione in seno al Consiglio di amministrazione dell’ente. Ritengo che aver garantito la stabilità economica dell’Enpaf sia stato un successo del Consiglio di amministrazione e del presidente Emilio Croce.
A mio avviso, e lo dissi già nel 2005, mancava, però, un’azione sul lato dei servizi all’iscritto, come la sanità integrativa. Da allora non ho mai smesso di promuovere la visione che questi servizi costituiscono un aspetto sempre più centrale degli enti previdenziali dei professionisti. Ora anche questo aspetto viene affrontato adeguatamente dall’Enpaf ed è un motivo di soddisfazione che va ad aggiungersi a quello di aver partecipato a una fase in cui si è costruito il futuro di questa nostra bellissima professione.
(di Lorenzo Verlato, Farma Mese n. 10/2022 ©riproduzione riservata)